P I M P I R I M P A N A

rivista letteraria in linea (forse non con i tempi)

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LA CACCIA ALL’UOMO: UN TEMA RICORRENTE NELLA STORIA DEL CINEMA

Paco Carreño (traduzione di Marco Morgione)

Nel corso della storia del cinema si ripete un tema, qua e là, in film di estetiche e argomenti apparentemente differenti, che ci ha portato a scrivere le seguenti riflessioni. Si tratta di storie in cui, un uomo qualsiasi è perseguitato apparentemente senza un motivo da altri uomini, dei quali solitamente non viene mostrato il volto, o da minacce sconosciute.

Nella maggior parte dei casi, il protagonista o i protagonisti di questi film, contano solo su un vero alleato, la propria paura, che li va rinforzando in una fuga o una resistenza piena di ostacoli. La loro lotta ha a che vedere con l’episodio biblico di Davide e Golia, che si insinua a volte nel nome del protagonista di alcuni di questi film, come David Mann in Duel. La superiorità dell’avversario è talmente schiacciante che il raggiungimento della libertà, ovvero mantenersi in vita, è di un eroismo simile a quello della tragedia classica.

Cercando di resistere, i fuggitivi possono acquisire la nobiltà degli uomini che affrontano un destino implacabile. Appartengono alla stirpe di Giobbe, Edipo, però di fronte a loro non ci sono più dèi. E nemmeno scontano con la propria persecuzione una colpa sparsa nel tempo o nel sangue. La forza cieca che si accanisce contro di essi non ha, in principio, una motivazione legale o religiosa. Non si tratta perciò né di una vendetta né di un castigo.

Per questo motivo, poiché non troviamo un motivo plausibile nell’azione dell’antagonista feroce e implacabile, deciso ad annientare qualsiasi barlume di innocenza attaccando implacabilmente quei cittadini anonimi, ci vediamo obbligati a cercare un senso a quella specie di sacrificio sugli altari dove gli dèi e le ragioni hanno perso i propri profumi e le proprie parole.

Qual è la colpa che costringe a perseguitare quegli esseri così indifesi? Sarebbe difficile trovare una colpa che non sia quella condivisa da chiunque di noi. Una colpa tanto estesa quanto l’umanità, riconoscibile in tutti quelli che diventano bersaglio di un carnefice volenteroso.

Una colpa così poco definita, che può essere compresa soltanto con la finezza con cui il filoso Walter Benjamin spiegò in uno dei suoi dei suoi frammenti come il capitalismo si fosse convertito in una religione.

Per Benjamin, il capitalismo non è erede del protestantesimo, come aveva studiato Weber, ma costituisce da solo un culto che non è sostenuto da nessun dogma, nessun mito, nessuna parola che appoggi, che diriga le azioni rituali.

Dato che non c’è nessuna teologia dietro l’immenso apparato dominato dall’utilitarismo, ne consegue che sia un culto irriducibile. Le parole rimangono attaccate agli uomini come tanti altri oggetti puramente funzionali. Questo fa si che la liturgia non abbia giorno di riposo. Ad essa partecipano perfino i non credenti. In questa religione tutti i giorni sono festivi, tutti i giorni si officia.

Infine, e questa caratteristica segnalata da Benjamin è quella che ci coinvolge più direttamente, il capitalismo non è basato su un culto espiante, come il resto delle religioni conosciute, bensì colpevolizzante. “Una monumentale coscienza di colpa, che non sa scuotersi la colpevolezza di dosso, utilizza il culto non per rimediare a questa colpa, ma per renderla universale.”

Forse il film che rappresenta più chiaramente questa colpevolezza, questo culto costante è The Truman Show, in cui troviamo quella liturgia di massima visibilità, lo spettacolo, di cui non c’è tregua.

Il protagonista non ha una via di fuga. Ogni suo gesto, ogni sua azione, la sua compagna, i suoi amici, quasi ogni suo pensiero è parte di un montaggio la cui unica finalità è il consumo.

Finché Truman agisce come ha sempre fatto, rappresentando se stesso senza ipocrisia e collaborando con una vita impigliata in un permanente reality show, cosparsa di annunci, non esiste nessun problema. Come direbbe Benjamin, contribuisce a compiere l’essenza del capitalismo, il cui obbiettivo non è la riforma dell’essere, bensì la sua distruzione, e verso essa si dirige con allegria l’umanità colpevole, cercando con tutti i mezzi “il raggiungimento di uno stato mondiale di disperazione”, la sua unica speranza.

Solo con la comparsa del caso, di una sorpresa che trascenda l’assolutista immanenza del capitalismo, per il quale non ci può essere niente oltre al mercato, il protagonista del suo stesso show ottiene il minimo necessario di coscienza per sentirsi intrappolato e voler prendere le proprie decisioni in libertà.

Ecco quindi che scattano tutti gli allarmi. Il proprio pensiero si converte in una minaccia e qualsiasi intento di essere qualcuno o fare qualcosa oltre quello che viene dettato dallo spettacolo sarà perseguito implacabilmente, come se la libertà mettesse in questione tutto il sistema capitalista.

In Figures in a landscape di Losey, distribuito in italiano con il titolo Caccia sadica, e nel celebre Duel, il primo film di Spielberg, troviamo ancora una persecuzione spietata che sembra provocata da un’insignificante ribellione delle vittime, talmente irrisoria che non sembra neanche esistere nella mente dei carnefici.

In questi due film anche la macchina gioca un ruolo fondamentale come alleata degli antagonisti. Nel primo caso si tratta di un elicottero e nel secondo di un camion. I registi evitano di mostrare il volto dei persecutori, nascosti dietro un casco o una sottile pianificazione. Fino al punto che sembrano essere le macchine stesse ad esercitare il castigo, le vere protagoniste della persecuzione.

L’inclusione della macchina nelle avventure ci spinge ad interrogarci riguardo alla sua storia e alla sua relazione con l’essere umano. Inventate con il proposito di evitare la nostra esposizione ai grandi pericoli dell’esistenza, in un primo momento ci aiutano a instaurare un benessere che dovrebbe allontanare le paure primordiali.

Però la sicurezza che offrono ci rende particolarmente sensibili a qualunque paura, e con fondamento, poiché moltiplicano i pericoli. Di fatto, sembra che siano state incapaci di sfuggire alla loro natura inumana, materica. A volte abbiamo la sensazione che le macchine si rivoltino verso l’uomo, diventando la maledizione contro cui erano state create, esponendoci a pericoli mai sospettati prima della loro creazione. Chi non ricorda la naturalezza automatica con la quale Hall, il computer di 2001 odissea nello spazio, attacca la sua vittima con l’indifferenza di un qualsiasi fenomeno naturale?

Lo scrittore tedesco Ernst Jünger pensa che il naufragio del Titanic dia inizio a una tappa nell’umanità dominata dalla paura e dall’ossessione per la sicurezza. La macchina si converte a partire da quel momento in un utensile d’isolamento per l’uomo, condannato da allora in poi a godere di una libertà moderata, poiché “limita le sue decisioni in funzione delle facilità tecniche”.

La diffidenza generalizzata della nostra epoca intensifica la protezione e questa provoca una crescita della sicurezza che tronca le libertà dell’individuo. È sempre più difficile una sopravvivenza individuale, e quelli che ci provano sono perseguiti implacabilmente in nome di questa sicurezza totale per la quale non può esistere nessuna minaccia esterna.

Per Jünger, il nostro mondo “assomiglia a una imbarcazione che a volte mostra tratti confortevoli e altre mostra segni di terrore”. La tecnologia sarebbe la testa di una moneta la cui croce è la Zattera della Medusa, il naufragio in cui si farà manifesto che “la condizione di animale domestico trascina con sé la condizione di animale da macello”.

Di fronte a questa situazione di mancanza di libertà provocata dalla paura, Jünger propone la figura dell’imboscato, di colui che prende le sue decisioni in un mondo in cui la dipendenza è quasi assoluta e in cui l’uomo si vede esposto prima o poi al momento in cui la catastrofe o la sua minaccia concederanno il potere ai più vili, come un naufragio in cui d’improvviso i ruoli si invertono e il potere è usurpato dai più crudeli.

Imboscato, nelle nostre circostanze, sarebbe chiunque avesse deciso di non contribuire a ciò che il collettivo filosofico Tiqqun ha chiamato l’errore bianco, che tutti subiscono per il fatto di vivere in un mondo nel quale siamo potenzialmente sospetti, nel quale saremmo capaci di denunciare i nostri migliori amici, perfino noi stessi, poiché ci sarà sempre, nella rete normativa nella quale agiamo per la nostra totale sicurezza, qualche regola forse non ancora scritta che abbiamo infranto.

L’angelo sterminatore, film che Buñuel pensò di chiamare in un primo momento Los náufragos de la calle Providencia, con il quale il regista aragonese voleva dare la propria versione del tema della Zattera della Medusa, tanto presente nell’arte e nella letteratura del diciannovesimo secolo (si pensi alla grande opera di Gericault o a I naufraghi del Chancellor di Julio Verne), offre il culmine di una minaccia che trova spazio solo nell’immaginazione dei personaggi borghesi imprigionati dalla propria paura in una festa senza via d’uscita.

Il nostro mondo, nell’immaginario di alcune opere artistiche, sembra deciso a rinchiudersi in sé stesso, a proteggersi con un’invalicabile coltre di disperazione. E la decisione opportuna si allontana, come un territorio sempre meglio difeso (da fuori) dagli stessi esseri umani.

Qualcosa di simile lo troviamo in Stalker, il film di Tarkovskij, in cui c’è una guida, (stalker) che accompagna, nella rischiosa impresa di introdursi nella Zona, tutti coloro che vogliono addentrarvisi. Si tratta di un luogo proibito, ferocemente difeso dall’esercito, che spara e perseguita tutti coloro che osano varcarne i confini.

Una volta dentro, gli “imboscati” si dirigono verso la Stanza, uno spazio dove si avverano i desideri. Lì dentro si recupera il contatto con le forze elementari, dalle quali si può estrarre il potere decisionale. L’unico problema è che non è facile trovare la Stanza, visto che nella Zona tutto è in continuo cambiamento, e solo un vero Stalker, qualcosa simile ad un’anima pura, può farsi strada in un territorio tanto mutevole.

La Zona ha connotazioni edeniche e contrasta plasticamente con il grigiore verdastro dall’altro lato del filo spinato. Inoltre, si mostra chiaramente che l’imboscamento si realizza soprattutto all’interno di ognuno, che qualunque avventura esterna è legata a un sentimento intimo, infruttuoso dal punto di vista puramente egocentrico. Non è il caso di fare semplice turismo etico o metafisico, come i personaggi che hanno contrattato i servizi della guida, uno scienziao e uno scrittore, meri spettatori di una meraviglia che osservano come fossero visitatori di un museo.

Questi film, o la nostra interpretazione degli stessi, invitano per mezzo dell’immaginazione, una facoltà chiaramente abbandonata nel nostro mondo che la ragione guarda dall’alto in basso con la sufficienza di una prova superata da molto tempo, a introdursi con tutto il cuore in un mondo dove l’avventura è proibita da esseri per i quali il pensiero è un puro atavismo, dal momento che esiste già la legge, che ci tutela, come in un racconto di Kafka, per condannarci.

 

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